ASCOLTA L’AUDIO DELLA STORIA

L’odore acre della calendula mi rende cosciente.
L’odore di terra e legno dell’iris mi ossigena.
L’odore d’agrume dell’anemone mi espone al sole.
Sono così stanca, se posso confessartelo.
Sono… preda di quella percezione dell’errore, amara, insormontabile… non vedo respiri, e non immagino albe nuove.
Solo due mesi, sono passati solo due mesi, eppure puzzano di eterno.
Mio marito… non lo capisco più, o forse non l’ho mai davvero capito. Speravo che le cose sarebbero cambiate. Che si sarebbe ingegnato, che si sarebbe trovato un lavoro.
E invece ha la insana abilità a rimandare e temporeggiare, lasciandomi la responsabilità di decidere per noi, di lavorare per noi, di portare avanti un matrimonio di cui non sono più sicura.
E mi è impossibile di alzare il capo, di ribellarmi, perché che moglie sarei, a infierire su un marito che non sa trovarsi lo straccio un mestiere, di un uomo che è già in difficoltà?
Me lo ripetevano, di non sposarlo. Anche persone vicine a lui. Ma non ho ascoltato nessuno, perché per primo mio marito era intenzionato a consegnarci a Dio, perché ripeteva d’essere innamorato.
La ricordo bene, la prima volta a Roma. Io venivo da Montefranco, era il ’55, papà mi aveva mandato da zio. Avevo una strizza, e subito m’era apparso evidente che questa città era così tanto grande che non l’avrei mai, mai vista tutta, ed è strano dirsi: Erica, non conoscerai mai tutte le strade del posto in cui vivrai per sempre.
Zio e zia sono stati tanto cari con me, è inutile che te lo dica. Mi hanno chiamato con loro al mercato dei fiori, in via Urbana. Facciamo le “poste”, nel senso che trasportiamo i fiori dal mercato ai negozi che poi li venderanno.
Li annuso, come se custodissero segreti delle persone, segreti che sono destinati a restare sepolti – fin quando non ti presenti ai fiori. Mi chiedo a chi saranno destinati, che utilizzo ne faranno, queste persone, come gestiranno fragranze ed emozioni.
Ecco, non tutti i segreti, però, mi interessano.
Quelli di mio marito, per me, devono restare tali e, come ogni cosa che lo riguardi, lontani da me.
Dio, come mi pesa esprimermi così dopo due soli mesi di matrimonio. E, al tempo stesso, come mi sento stupida a non aver ascoltato chi mi diceva che aveva bisogno di un altro tipo di donna, che non ero adatta a lui, che ero una persona migliore.
Lui ha smesso di lavorare coi campi, con la sua famiglia, a Prima Porta. Ogni tanto ha aiutato un fruttivendolo, della nostra borgata, ma poi basta.
Di lavorare non gli interessa. Lui ti promette che troverà un mestiere, ma poi non lo fa mai, e si nutre dei suoi tempi sospesi.
Zio gli ha offerto un lavoro al mercato con lui: ma mio marito ha rifiutato. Mi aveva assicurato di aver fatto domanda per un lavoro al Vaticano: e invece, nulla di fatto.
Così lui resta in casa, molle, inerte, e io, ogni giorno, vado a lavorare, per me ma soprattutto per lui, per trascinare un matrimonio così giovane che lui ha voluto, senza fare nulla per curarlo, senza dargli quell’acqua che ne farebbe cosa viva. Ci siamo stabiliti in via degli Equi, in una casetta al secondo piano. Il sogno di tante coppie, forse, l’incubo per me, ormai anche timorosa di incontrare lo sguardo di un uomo che mi sbatte in volto la sua pigrizia senza ch’io possa replicare.
L’odore deciso e mieloso della primula mi infonde energia.
L’odore inebriante del narciso mi consegna al sogno.
L’odore pepato della fresia mi ricorda che sono libera.
Ed è così, in via degli Equi, dove di equo non resiste più nulla, che le mie giornate passano, tra la paura di non essere all’altezza delle mie nozze e la consapevolezza di ergermi su di esse con una forza che non potrò mai riconoscere.
Per fortuna, per fortuna che vivono i fiori.

 

Enrica Paolini, ventiquattro anni, viene uccisa dal marito Giuseppe Savino, di dieci anni più grande, il primo di marzo del 1959. Quaranta coltellate.
Il movente? La donna si era accorta che il marito, di nascosto, le aveva sottratto, dal borsello, 500 lire. Alle sue lamentele, Savino, all’epoca disoccupato, ha risposto nel più empio dei modi, massacrando la giovane sposa, che lavorava con i famigliari al mercato dei fiori di via Urbana, e che lo aveva sposato soltanto pochi mesi prima.
Quando gli agenti irrompono nell’appartamento, trovando il cadavere di Enrica Paolini, Savino si lancia dal secondo piano per sfuggire alla cattura. Interrogato, sostiene che è stata sua moglie stessa a procurarsi le ferite mortali, e non lui.
Arrestato e processato, viene condannato a 19 anni di reclusione, confermati dalla Cassazione nel 1963.

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